Situazione sociale e conflitti nelle miniere di zolfo nel cesenate

Ingenti capitali occorrevano per portare avanti un’impresa mineraria: all’inizio erano molti proprietari terrieri, che investivano le loro ricchezze in questa nuova avventura, poi sostituiti da società anonime alcune di provenienza straniera, in particolare inglesi e francesi. L’agricoltura, in quel periodo, conosceva una crisi profonda, definita da molti storici come la “gran depressione”, anche a causa del ribasso generalizzato dei prezzi dei prodotti. Nelle campagne cesenati famiglie numerose di contadini vivevano stentatamente ed ai limiti della sussistenza. Era abbastanza facile, quindi, reperire mano d’opera da impiegare nei pesanti lavori minerari: il gran serbatoio agricolo travasava in ogni momento migliaia di lavoranti, anche per periodi stagionali, nella nascente industria dello zolfo.
Lo stesso bestiame da lavoro in agricoltura, come il bue, l’asino ed il mulo, era utilizzato per il trasporto dell’ingente massa di materiali, necessaria al funzionamento di una miniera: nascevano nuove figure di lavoratori come i “birocciai”, antenati dell’importante categoria cesenate degli autotrasportatori, oggi leader in campo europeo. Si creava una “mobilità”, una migrazione, anche dalle regioni limitrofe, verso le localitˆ dove le zolfare stavano crescendo, che se poteva rappresentare un’attenuazione di certe tensioni nel mondo agricolo, con l’assorbire mano d’opera in esubero, di contro si accentuavano nuovi contrasti sociali per l’affollamento in piccole borgate di tanti lavoratori e delle loro famiglie. Si pensi che nella frazione della Boratella, in comune di Mercato Saraceno, nel volgere di pochi anni la popolazione era passata da poche decine di abitanti ad oltre 2000 unità. La situazione dal lato abitativo era spaventosa, in minuscole baracche vivevano intere famiglie, a contatto con animali domestici, sebbene utili per integrare il magro salario del minatore, ma che portavano le già deprimenti condizioni igieniche ad un livello infimo.

Il tasso di morbilità e mortalità era elevato, i fumi che si sprigionavano, giorno e notte dai calcheroni, dove avveniva la fusione dello zolfo, formavano una cappa opprimente sulle borgate e campagne circostanti, l’aria era resa soffocante ed ammorbata, le scarse colture dei campi e degli orti venivano di solito “bruciate” da questo clima, che Pasolini – Zanelli in “Gite in Romagna”, paragonava all’inferno dantesco.
La presenza di “casse di mutuo soccorso operaio” serviva ad alleviare in parte le necessità piùù impellenti delle famiglie di minatori coinvolti in incidenti sul lavoro, purtroppo sempre numerosi. Nella prima pubblicazione di Aristide Ravà sulle Associazioni di mutuo soccorso, del 1873, non erano menzionate quelle esistenti presso le miniere zolfuree del cesenate, che invece erano presenti e ben documentate nelle relazioni ufficiali.
Nella successiva opera del Ravà, del 1888, sempre riguardanti le Società di mutuo soccorso, si accennava a pag. 3 che “..nelle miniere solfuree della Boratella esistevano due Casse di Mutuo Soccorso fra gli operai, ma che, a seguito del fallimento della società che eserciva le miniere, il patrimonio accumulato era tutto svanito.” Se le condizioni sanitarie dovevano essere alquanto precarie non meno drammatiche erano quelle riguardanti l’ordine sociale. Un’analisi a livello macrosociale, del periodo che si sta esaminando, ci porta ad osservare come la vita della persone nelle campagne del circondario cesenate e dedite all’agricoltura fosse incentrata in piccole comunità, in villaggi dove vi era una conoscenza “totale di tutto e di tutti”. In tale tipo di società i vincoli erano molto stretti, gli individui erano abbastanza integrati, difficilmente si presentavano problemi di adattamento del singolo nei confronti degli altri, le tensioni o conflitti, che comunque erano sempre esistiti, si riducevano al minimo. In genere non vi erano meccanismi, salvo rare eccezioni, che portavano il giovane a praticare un’attività diversa da quella del padre e ciò avveniva per gradi e senza difficoltà. I livelli dei bisogni erano logicamente molto bassi, si accettava la situazione così com’era, quasi per “volere divino”, ci si sposava tra persone con cui si poteva continuare un ciclo di vita in modo uguale ed il meccanismo di “integrazione automatica” era forte. La nuova realtà di migliaia di individui sottratti ad un mondo, quello agricolo, che era rimasto statico da tempo immemorabile, per un lavoro che aveva nuove regole, scandite da turni nelle gallerie delle miniere, dove l’aerazione era difficile, il pericolo di crolli ed incendi sempre presente e soprattutto il rapporto con una serie di individui con ruoli, riferiti al nuovo impiego in miniera, ben precisi e cogenti, rappresentava un cambiamento sostanziale per chi sino allora era abituato a vivere all’aria aperta, in grandi spazi a condurre la propria vita lavorativa ritmata dal lento scorrere delle stagioni. La stessa istituzione della famiglia, che veniva vista come entità naturale, biologica per la riproduzione della specie e che costituiva un’unità produttiva perché tutti i membri cooperavano alla creazione del misero reddito, dove l’educazione avveniva per apprendimento diretto dai genitori perché non esistevano ambiti esterni di socializzazione, subiva un radicale cambiamento.

La famiglia da tipo patriarcale-agricola diventava di tipo coniugale: piano, piano veniva meno il discorso di unità produttiva, il capofamiglia-minatore provvedeva al sostentamento quasi in modo totale, l’aiuto degli altri membri era integrativo e dedito a piccoli lavori agricoli. Il fenomeno di proletarizzazione, che aveva investito una buona parte del territorio cesenate, era stato avvertito con molto ritardo dalle istituzioni, che avevano lasciato in completo abbandono un’entitˆ così estesa di individui. La presenza dello Stato si faceva sentire solo con una forte repressione per il mantenimento dell’ordine pubblico in occasione di lotte dei minatori, che rivendicavano migliori condizioni del pesante lavoro o garanzie contro l’insicurezza dello stesso dalle continue crisi economiche, che li esasperavano ed avvilivano. Uno dei primi scioperi dei minatori, proclamato da 180 operai, il 17 ottobre 1870, alla miniera Boratella II, verteva sulla richiesta alla Direzione di un aumento di salario; la lotta però falliva miseramente con l’arrivo sul posto di uno squadrone di cavalleria e di diversi carabinieri reali “per tenere in calma l’intero territorio..”. Ma gli anni a venire vedranno una serie di lotte ancora più pesanti con vere e proprie serrate delle miniere, che inevitabilmente lasciavano sul lastrico centinaia di famiglie.
Aver conquistato il diritto ad associarsi da parte di tanti cittadini era stato il primo momento cruciale nella formazione di una società più evoluta.

Il cambiamento culturale che portava i membri di una stessa associazione a limitate differenze di prestigio fra di loro e quindi ad un certo egualitarismo “morale”, la costituzione di vincoli di solidarietà, magari per difendersi dai soprusi di un certo gruppo antagonista al proprio, erano tutti fattori che concorrevano a spingere più in alto il grado di coesione di una comunità. Il problema religioso era stato risolto in modo drastico, in pratica tagliando il cordone ombelicale con la Chiesa, da chi, in particolare, dalla agricoltura era passato al lavoro in miniera e ciò era avvenuto subito dopo il passaggio dal potere pontificio, nelle Legazioni romagnole, a quello del governo piemontese.
L’unica parvenza di religione che poteva essere ascoltata dalle migliaia di minatori era quella che proveniva dagli scritti del “papa nuovo”, cioé Mazzini, intrisi di una spiritualità intensa, con una fede in una legge morale superiore a quella degli uomini e con la coscienza di operare per il benessere della intera umanità.
Non erano i minatori a leggere direttamente il verbo del patriota genovese perché la maggioranza di loro era analfabeta, ma su quelle terre bruciate dai miasmi dello zolfo in tanti avevano piano piano seminato, facendo leva, all’inizio, sui bisogni primari di questi lavoratori, ma coll’andare del tempo nasceva, magari contorta, la pianta forte che avrebbe dato come frutti le leghe rosse e bianche, le cooperative, il movimento sindacale ed i movimenti politici, che hanno inciso profondamente sul tessuto sociale della Romagna. E’ significativa un’intervista fatta all’ottantasettenne Aldo Bertozzi di Formignano, operaio dell’azienda agricola Montecatini, da cui traspare l’ideologia che nutriva i minatori ancora all’inizio del ‘900.